Il suicidio nella Roma antica

Il suicidio nella Roma antica veniva considerato come la massima e legittima espressione della libertà personale.

Il suicidio nella Roma antica
Il suicidio nella Roma antica
IL SUICIDIO NELLA ROMA ANTICA, SECONDO IL DIRITTO ROMANO:

Nella tradizione greca il suicidio veniva legittimato solo nel caso in cui persone di un certo rilievo si fossero venute a trovare in situazioni particolarmente disagianti. Al contrario invece, nella Roma antica il suicidio era un diritto che apparteneva a ogni singolo cittadino. La vita era considerata un bene supremo, ma a completa disposizione di ogni singolo individuo, anche chi qual’ora avesse deciso di togliersi la vita, non riuscendoci, non sarebbe comunque incorso in nessuna sanzione potendo egli disporre della propria vita come più riteneva opportuno. L’unica eccezione era rappresentata da chi tentava di togliersi la vita per evitare il servizio militare, che nell’occasione sarebbe stato congedato dall’esercito con disonore, il che rappresentava una vera e propria morte civile da tutta la società romana. Il suicidio nella Roma antica assumeva quindi la caratteristica di una libertà del cittadino, poichè il diritto romano non interveniva per proibirlo, quasi un paradosso visto che per certi versi il diritto romano è noto per non concedere particolari libertà. Solo in età imperiale i giuristi dell’epoca iniziarono ad interessarsi di tale pratica, ritenendola comunque una “libertà naturale”, andando poi ad elencare tutti i motivi per i quali una persona si sarebbe potuta togliere la vita. In questo elenco troviamo tutta una serie di motivazioni quanto mai attuali come ad esempio, le sofferenze fisiche, il disgusto alla vita, oppure per follia o per “ostentazione” come nel caso di alcuni filosofi che mostravano disprezzo per la morte. Su tutti i motivi elencati viene comunque messa in evidenza l’esigenza primaria di una “morte opportuna” per cui invece che attendere passivamente la fine della propria esistenza, si preferisce anticiparla per porre fine alle sofferenze. Si scopre quindi che anche nell’atichità un acerbo dibattito sull’opprtunità del fine vita andava sviluppandosi. Molti erano infatti concordi nel terminare anticipatamente la propria vita in caso di malattie gravi, o di grandi sofferenze, altri invece ritenevano che solo le divinità avevano questo diritto, esempio ne è il celebre oratore Cicerone che scriveva:

“Perciò tu […] e tutti i pii dovete trattenere ancor l’anima in prigionia del corpo, né potete emigrarvene dalla vita umana senza l’ordine di colui dal quale l’anima vi è stata data, per non sembrare d’aver disertato l’ufficio umano commessovi dal dio”.

Viceversa il celebre filosofo Seneca, alcuni decenni più tardi, sosteneva l’opportunità al suicidio qual’ora il corpo non fosse più stato in grado di svolgere le sue normali funzioni, diventando: “un edificio putrido e decadente”. In epoca successiva, in particolare dal I al III secolo d.C., un altro tipo di suicidio era previsto dai testi giuridici dell’epoca. La legge romana rendeva nulle le disposizioni testamentarie di coloro che si erano macchiati di gravi crimini ed erano stati condannati alla pena capitale. Per evitare almeno la confisca dei beni destinati agli eredi, l’imputato poteva anticipare la sentenza togliendosi la vita, una regola che venne però successivamente annullata, a parte nei casi in cui gli eredi del condannato  fossero riusciti a dimostrare che il suicidio era avvenuto per sottrarsi a una grave malattia o per il “taedium vitae”. Le cose mutarono sostanzialmente dal IV secolo d.C, dove pur non cambiando l’ordinamento giuridico, cambiava la considerazione per l’atto del suicidio, che passava dall’essere apertamente tollerato ad essere totalmente condannato, tutto questo per la diffusione delle idee neoplatoniche e per le predicazioni dei più eminenti padri della Chiesa come S.Agostino, Eusebio di Cesarea o S.Ambrogio.

IL SUICIDIO NELLA ROMA ANTICA, SUICIDIO PER IL “TAEDIUM VITAE”:
 “Affranto dalle angosce di uno spirito oppresso e dai molti dolori del corpo, che mi fecero provare disgusto per entrambi, mi sono dato la morte che desideravo.”

Queste sono le parole scolpite sulla stele funeraria di un certo Marco Pomponio Bassulo, ma il più celebre capostipite del “taedium vitae” è certamente il poeta e filosofo latino, Lucrezio. Il poeta romano si trovava a vivere nel I secolo a.C.,  un periodo molto complicato per Roma lacerata dalle guerre civili e dal graduale abbandono degli antichi valori che ormai lasciavano spazio alla dissolutezza portata dalle ricchezze provenienti dal lontano oriente. Proprio Lucrezio scrive di come moltissimi romani benestanti, preoccupati e scoraggiati dagli orrori delle prime guerre civili, caddero in uno scoramento senza limiti, sprofondando in una noia morbosa e ansiosa che suscitava in loro  desideri di oblio e di riposi senza risvegli. Molti anni dopo anche l’Imperatore Marco Aurelio vedrà come soluzione al “taedium vitae” il suicidio:

«Dobbiamo convincerci che non dipende dai luoghi il male di cui soffriamo, ma da noi; non abbiamo la forza di sopportare niente, né fatiche né piaceri, neppure noi stessi. Ecco perché alcuni si sono spinti al suicidio, perché le mete che si prefiggevano di raggiungere, a furia di cambiarle, riproponevano sempre le stesse cose, non lasciando spazio alle novità: la vita e il mondo stesso cominciarono a nausearli e alla loro mente si presentò l’interrogativo proprio di chi marcisce tra i propri piaceri: “Sempre le stesse cose! Fino a quando durerà tutto questo?”»
IL PARTICOLARE SUICIDIO DI PETRONIO:

Il celebre scrittore e politico romano Petronio Arbitro (27-66 d.C.), per le sue vicissitudini sembrerebbe rientrare fra quei personaggi che scelsero di togliersi la vita per il “taedium vitae”, ormai disgustato dalla ricerca di ogni piacere, del tramonto dei suoi ideali e dal declino della sua classe. Tacito però non si limita a giudicarlo uno scialacquatore di denaro dedito ad ogni dissolutezza come molti all’epoca dicevano di lui, ma va oltre, ricordando come Petronio fosse anche un uomo dal lusso raffinato  e che svolse egregiamente il ruolo di governatore della Bitinia quando fu chiamato in causa. Questa raffinatezza Petronio non la perse neppure in punto di morte. In quel periodo l’Imperatore Nerone sempre più ossessionato dalle sue paure aveva già iniziato un’epurazione di tutte quelle figure che secondo lui miravano a spodestarlo, fatto sta che mentre Petronio cercava di raggiungere lo stesso Nerone a Cuma venne arrestato, aspettandosi poi la naturale condanna a morte. Lo scrittore romano non indugiò e anzichè attendere la sua sorte fra speranze e timori, scelse il suicidio, ma decise di farlo a suo modo, e ed è Tacito che ci racconta come:

“Tuttavia, non licenziò precipitosamente la vita: si tagliò le vene e poi tornò a legarle a suo piacimento, parlando con gli amici, ma non di argomenti seri, né cercando la fama di uomo coraggioso. Non diceva né ascoltava niente sull’immortalità dell’anima, né altre sentenze filosofiche, ma solo canti leggeri e versi facili.”

Petronio dunque progettò la sua dipartita come desiderava e non come avrebbe voluto Nerone, andando normalmente a pranzo per poi coricarsi, come se la morte avvenisse nel sonno in modo del tutto fortuito, non prima però di aver lasciato ai posteri uno scritto, che in seguito sarebbe stato inviato allo stesso Nerone,  nel quale si evidenziavano le nefandezze dell’Imperatore e del suo prefetto Tigellino, seguite da giudizi durissimi sulle loro persone e sul loro operato.

IL SUICIDIO DEGLI SCHIAVI E DELLE PERSONE COMUNI:

La infamante considerazione degli schiavi nell’antica Roma è cosa  ben nota, e se per un libero cittadino il suicidio valeva come un diritto privato, non era lo stesso per un servo. Il suicidio, o tentato suicidio, di uno schiavo era considerato causato dalla sua stessa inettitudine, venendo perciò considerato un “cattivo schiavo”, ma non cattivo caratterialmente, ma cattivo nel senso di “oggetto mal funzionante”, ossia difettoso.

Per quel che riguarda la gente comune pare accertato che l’antico ponte Fabricio fosse il luogo da dove molti si gettavano per porre fine alla loro vita, coprendosi   la testa prima di gettarsi nel vuoto, anche il celebre poeta romano Orazio ci tramanda di come, dopo un tracollo finanziario, avesse deciso di farla finita gettandosi dal ponte, e salvato in extremis dalle parole del filosofo Stertinius. Va però detto che il lancio nel vuoto per le classi più abbienti non era considerata la fine più onorevole, ci sono molte storie che ci tramandano di come i personaggi più in vista e facoltosi abbiano preferito suicidarsi trafiggendosi di propria mano con un pugnale o aiutati dagli schiavi, oppure come nel caso citato in precedenza di Petronio, tagliandosi le vene.

La morte di Seneca, in un quadro di Dominguez, conservato al Mueso del Prado di Madrid
La morte di Seneca, in un quadro di Dominguez, conservato al Museo del Prado di Madrid
L’ONOREVOLE SUICIDIO DEL FILOSOFO:

Dopo la sospetta partecipazione alla congiura ordita da Pisone nei confronti dell’Imperatore Nerone, a Seneca viene ordinato da quest’ultimo di togliersi onorevolmente la vita oppure di essere giustiziato come un uomo comune. In osservanza al suo pensiero stoico che proclama che i mali sono tali solo in apparenza, in opposizione alla dottrina platonica che condannava il suicidio non motivato da gravissime circostanze, Seneca non esitò naturalmente a scegliere la prima opzione. La morte di Seneca è descritta da Tacito in modo molto simile a come è stata descritta quella di Socrate, riportata nel “Fedone”, uno dei dialoghi più noti di Platone, riportandone la stessa atmosfera, con il condannato circondato dai suoi cari e dai suoi amici. Come nel caso di Socrate, anche Seneca in punto di morte consola e tranquillizza parenti e amici, e non accade il contrario come invece  potrebbe essere normale. Tacito ci racconta che Seneca:

“Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell’animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro le fatalità della sorte”.

Dopo queste parole si compiva il gesto estremo, in un sol colpo vennero recise le vene del braccio, ma per il corpo vecchio e indebolito fu necessario recidere anche quelle delle gambe. Per accellerare il processo Seneca chiamò a se l’amico Anneo Stazio pregandolo di somministrargli la dose di veleno già pronta da tempo, lo bevve ma senza l’effetto desiderato poichè la già abbondante fuoriuscita di sangue ne aveva  intorpidito le membra. Da ultimo venne deposto secondo le sue volontà in una vasca di acqua molto calda, dove spirò a causa dei vapori e dove poi venne cremato senza nessun cerimoniale.

credits to:

https://www.storiaromanaebizantina.it/il-suicidio-nel-mondo-romano-e-la-sua-necessita-politica/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.