La caduta di Veio

La caduta di Veio, datata approssimativamente al 396 a.C., si configura nella millenaria storia di Roma più come una capitolazione dopo un pluriennale assedio di una città nemica, piuttosto che di una sconfitta, in una delle tanto frequenti per l’epoca, battaglie campali.

La caduta di Veio, cavalieri etruschi
 Cavalieri etruschi

LA CADUTA DI  VEIO, contesto storico:

La città etrusca di Veio con i suoi abitanti, soprattutto a causa dei soli venti chilometri che la separavano da Roma, costituì per decenni un irriducibile nemico pronto a stroncare sul nascere ogni tentativo di espansione della futura capitale dell’Impero. Per capire quanto endemica fosse la questione, basti pensare che la prima volta che la città di Veio venne ricordata nelle pagine di storia, a guidare Roma vi era ancora il fondatore della città, Romolo, pronto a sfidare gli etruschi in una battaglia risolutiva, una battaglia che vedeva coinvolta principalmente Fidene, ma che si espanse andando ad interessare anche il territorio di Veio. Al termine del conflitto gli Etruschi ottennero un accordo che prevedeva almeno cento anni di pace.  Nei primi secoli della storia repubblicana, la pace e la guerra fra queste due città si alternarono sistematicamente in modo quasi regolare, nascondendo nelle pieghe di questo periodo storico, eventi particolarmente violenti come il quasi completo annientamento da parte dei Veienti, dell’intera  Gens Fabia, nella tremenda battaglia sul fiume Cremera nel 477 a.C..

Dal 444 a.C., Roma aveva abbandonato la consueta guida dei due consoli, per affidarsi al comando dei Tribuni consolari, figure politiche che rimasero a capo della Repubblica fino al 367 a.C., con il lato negativo che queste numerose personalità, facendo prevalere a volte il proprio egoismo o le loro gelosie,  andavano ad intralciare il processo decisionale della città in un periodo bellico così delicato. Di non poco conto fu la novità della paga consegnata ai soldati dal Senato. Fino a quel momento infatti, nei periodi di guerra, per mezzo di leve militari, venivano inquadrati nell’esercito di Roma i cittadini (principalmente agricoltori) che potevano permettersi un equipaggiamento militare, naturalmente a seconda delle proprie disponibilità. Al termine della campagna militare, gli uomini tornavano al loro lavoro o alle loro terre, assumendosi così il rischio, oltre a quello della vita, anche quello di indebitarsi, a volte fino a diventare schiavi, per il protrarsi di una guerra che naturalmente impediva loro di lavorare e di guadagnare, una situazione insostenibile che non poteva prolungarsi oltre. Così dopo numerose diatribe fra patrizi e plebei venne deciso che ai combattenti doveva essere versato il “soldo”, da qui il termine “soldato”. Con queste motivazioni i romani potevano affrontare con maggiore forza e per più tempo i conflitti che la coinvolgevano, tra i quali anche quello contro la città di Veio. Anche in questa situazione,  politicamente travagliata per Roma a causa dei conflitti interni fra la plebe e il patriziato, si decise di mettere fine alla contesa con Veio, sapendo che non sarebbe stata sufficiente una campagna militare di breve durata, ma approfittando del fatto che ora i soldati potevano prolungare la loro assenza dai loro possedimenti, venne stabilito di portare avanti ad oltranza un assedio alla città etrusca. Tuttavia Veio riuscì a resistere per lungo tempo, un pò perchè Roma era impegnata anche su altri fronti, ma anche a causa dell’eterna rivalità che divideva i tribuni su come procedere la guerra.

 L’abbandono degli Dei:

Come spesso accade la svolta del conflitto sconfina nella leggenda allorquando i Veienti, come tutto il popolo etrusco, attentissimi ai riti religiosi ed esperti nel saper leggere segni divini, vennero improvvisamente abbandonati dalle loro divintà. Il popolo etrusco era attento al lato religioso della vita quotidiana, profondo conoscitore di tecniche divinatorie, addirittura “esportava” aruspici a Roma, tanto che i romani a causa della guerra si trovarono in difficoltà ad “espiare” i molti prodigi che venivano annunziati. Un primo segnale di questa inversione di tendenza si ebbe quando l’improvviso vaticinare di un anziano veiente, venne proferito a portata di udito da alcuni romani. La profezia raccontava che i romani non avrebbero conquistato Veio fino a quando l’acqua del vicino lago, una volta innalzata, non fosse stata fatta defluire secondo un particolare rito. Un soldato romano nelle vicinanze attirò fuori dalle mura l’anziano aruspice chiedendo un consulto e anche se disarmato, riuscì a farlo prigioniero per poi trascinarlo a Roma al cospetto del Senato. L’anziano Veiente spiegò come compiere il rito ma il Senato non gli credette e preferì attendere una delegazione romana che nel frattempo si era recata presso Delfi per un consulto con il celebre oracolo, il quale confermò quanto detto dall’anziano aruspice. I riti vennero dunque compiuti secondo le modalità, ma la spinta decisiva verso la risoluzione del conflitto la diede la discesa in campo della potente città  di Tarquinia al fianco di Veio, che ebbe il risultato di ricompattare la frammentata società romana, ma soprattutto venne nominato dittatore Marco Furio Camillo.

La caduta di Veio, scene di battaglia
La caduta di Veio, scene di battaglia

Furio Camillo infuse  grande fiducia, non solo tra le fila dei soldati, ma anche fra la popolazione. Nell’organizzazione delle operazioni tutti volevano partecipare, venne quindi istituito un giorno per la leva dove anche Latini ed Ernici si offrirono volontari, dopo di che Camillo fece voto di indire grandi giochi e di restaurare il tempio della “Madre Matuta” quando Veio fosse caduta. Al termine dei preparativi Furio Camillo non perse tempo, si diresse rapidamente verso la città di Veio, sconfiggendo Falisci e Capenati, occupandone gli accampamenti e facendo un grande bottino, arrivato a Veio costruì nuovi fortini per rafforzare l’assedio dopo di che ordinò la costruzione di una galleria che doveva arrivare fino alla rocca nemica, per la quale si alternarono ben sei squadre di scavatori che si davano il cambio ogni sei ore. Con il buon procedere delle operazioni, Furio Camillo già intuiva il successo da li a breve, ponendosi quindi il problema su come spartire un bottino che si preannunciava ricco come non mai. La questione giunse in Senato, dove una parte sosteneva che chi volesse la propria parte se la sarebbe dovuta sudare sul luogo dello scontro, mentre la parte aristocratica guidata da Appio Claudio avrebbe preferito che fosse stata consegnata al Senato per riuscire a diminuire la tassazione legata al pagamento dei soldati. Alla fine vinse il partito della non decisione, lasciando il compito al popolo riunito nei Comizi, e una folla enorme si riversò ben presto  nei dintorni di Veio.

Furio Camillo fortunatamente era preparato ad una tale evenienza e alla presenza dell’esercito e di tutta la popolazione accorsa sul posto, innalzò preghiere verso Apollo e Giunone Regina, protettrice di Veio, per poi prepararsi con tutte le forze a disposizione all’assalto finale. L’attacco decisivo ancora una volta si ammanta di leggenda, come ci racconta Tito Livio; nel corso dell’assalto finale ci fu una pausa degli attacchi romani, accolti con gran stupore dagli etruschi, tanto da spingere il proprio sovrano a celebrare un scrificio nel tempio di Giunone. Sotto terra gli scavatori romani che avevano quasi ultimato la galleria, ebbero modo di ascoltare il presagio dell’aruspice etrusco, visto che ormai solo un sottile strato di terreno li divideva dal luogo. L’aruspice di Veio annunciò che la vittoria sarebbe andata al primo che si fosse impossessato delle viscere dell’animale appena sacrificato, così in brevissimo tempo i romani uscirono dal cunicolo dando inizio all’assalto e portando le viscere al loro dittatore. Nello stesso momento l’attacco romano si concentrò violentemente anche sulle mura della città. Il massacro si fermò solo nel momento in cui Furio Camillo ordinò di risparmiare la vita a coloro i quali fossero disarmati, e iniziò il saccheggio.

LA CADUTA DI  VEIO, conclusioni:

Com’era logico attendersi, al termine della guerra non mancarono gli scontenti che rimproveravano al dittatore il fatto di dover destinare una parte del bottino  per ripagare, come promesso, il dio Apollo del suo aiuto. Camillo il giorno dopo la vittoria vendette all’asta gli uomini liberi e quello fu il solo denaro che entrò nelle casse dello Stato, ma ugualmente la plebe fu scontenta; il bottino non era merito del dittatore, ritenuto un avaro; non era merito del Senato che aveva abdicato la sua funzione decisionale. Tutto il merito della spartizione era della Gens Licinia che il figlio Publio Licinio aveva proposto e il padre fatto approvare. Ad ogni modo Furio Camillo tornò a Roma in trionfo, su un carro trainato da cavalli bianchi con grande soddisfazione del popolo romano che lo acclamava  ma la cosa non fu gradita: nelle processioni i cavalli bianchi trainavano i carri con le statue di Giove e del dio Sole. Infine il dittatore appaltò la costruzione del tempio promesso a Giunone e sempre come promesso, consacrò il tempio alla Madre Matuta, dopo di che, depose la dittatura. La secolare guerra contro Veio era terminata, definitivamente, lasciando campo aperto ai romani per la futura conquista dell’Etruria.

credits to:

https://it.wikipedia.org/wiki/Guerre_tra_Roma_e_Veio

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