La Disfatta di Canne

La disfatta di Canne, costituì senza nessun dubbio la più grande battaglia di tutto il secondo conflitto punico,  e considerata dagli storici, la più grande manovra di accerchiamento, effettuata da un esercito numericamente inferiore. Anche ai giorni nostri, questo capolavoro dell’arte bellica, viene visto come uno degli esempi più riusciti ed efficaci.

LA DISFATTA DI CANNE, IL LUOGO DELLA BATTAGLIA:

La disfatta di Canne, avvenne il 2 agosto del 216 a.C., nella pianura antistante lo stesso insediamento, situato oggi in provincia di Bari. Tuttavia il luogo esatto dove avvenne lo scontro, è ancora oggetto di dibattito, la tradizione vuole appunto che la battaglia scoppiò nei pressi di Canne, sulle rive del fiume Ofanto, e non molto distante dalla odierna città di Barletta,  ma recenti studi, basati sull’acquisizione di documenti relativi allo scontro, e ad alcuni ritrovamenti archeologici, spostano il teatro di guerra un pò più a nord, sulla riva destra del fiume Fortore, in località Isola Rotonda, al confine fra Puglia e Molise, a pochi chilometri da Campobasso. Altri studiosi ancora collocano la battaglia addirittura più a sud di Canne, in località Castelluccio Valmaggiore, nella valle del Celano, a ogni buon conto noi terremo conto della località che ci indica la tradizione, e cioè nella piana di Canne, ancora oggi chiamata, Canne della battaglia, a ricordo della storicità dell’evento.

LA DISFATTA DI CANNE, contesto storico:

Anticipando Roma, che intendeva estendere il conflitto in Spagna e in Africa, Annibale, arruolando un imponente esercito di circa 26.000 uomini, la cui spina dorsale era costituito dalle resistenti truppe ispaniche, e da 26 elefanti da guerra, varcò prima il fiume Ebro per dirigersi verso i Pirenei, per poi puntare verso le Alpi, riuscendo ad eludere le truppe romane che cercavano di sbarrargli la strada a Marsiglia. In appena due settimane, il condottiero punico compì un’impresa storica, riuscendo a valicare l’arco alpino presso il passo del Gran San Bernardo e del Moncenisio, con una marcia a dir poco massacrante che causò la perdita di molti uomini e animali, riscuotendo però molto consenso fra le tribù celtiche che popolavano la pianura padana, e che non esitarono a dargli man forte. Nel 218 a.C., Annibale portò la guerra nei territori romani di più recente acquisizione. Nel mese di dicembre, i pochi elefanti rimasti ad Annibale furono comunque più che sufficienti per mettere in fuga, e causare loro grosse perdite, le legioni romane sul fiume Trebbia prima, e nel nuovo anno anche sul lago Trasimeno, sfondando così le difese dei valichi appenninici. I cartaginesi ora minacciavano da vicino la Capitale, e se in un primo momento si riuscì a non svelare completamente  alla cittadinanza, l’esito pessimo avuto nel primo scontro sul fiume Trebbia a causa della distanza ancora notevole, non  fu lo stesso dopo il Trasimeno, molto più a ridosso di Roma, e il panico prese decisamente il sopravvento. Il Senato, vedendosi così minacciato, fece l’unica cosa possibile, soppresse le magistrature ordinarie e nominò un Dictator, che avrebbe dovuto prendere tutti poteri su di se, e risolvere la situazione in ogni modo. La decisione cadde su Quinto Fabio Massimo, soprannominato poi “Cunctator”, (temporeggiatore), per la sua tattica di attesa che mirava a non accettare uno scontro in campo aperto con Annibale, bensì al logoramento dell’esercito nemico con continui attacchi fulminei e imboscate, una tattica che ebbe inizialmente un grande successo, nel rallentare le operazioni cartaginesi. Sfortunatamente nel 216 a.C., il mandato di Fabio Massimo terminò, non fra poche critiche di chi lo vedeva come un codardo nel non volere dare battaglia. Il potere tornò dunque nelle mani dei due consoli, Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone, che per divergenze insanabili, decisero di spartirsi il controllo dell’esercito a giorni alterni, ma se Emilio Paolo, si mostrò più prudente, Varrone, molto più implusivo e incline alla battaglia, attese il primo giorno utile in cui toccava a lui il comando per rompere gli indugi e sfidare Annibale in campo aperto.

LA DISFATTA DI CANNE, le forze in campo:

Annibale pose il campo nel villaggio di Canne, mentre l’esercito romano si posizionò sulle due rive del fiume Ofanto a circa tre miglia dall’insediamento. Di fronte a loro i consoli, si trovarono a che fare con un’armata molto variegata, i circa 35.000 fanti, erano infatti composti da tribù di varia provenienza, Galli Insubri, truppe ispaniche, veterani africani, e da almeno 10.000 abilissimi cavalieri iberici e numidi, che si rivelarono la vera arma vincente di Annibale. Dal canto loro, i due consoli romani disponevano di ben otto legioni e almeno  altrettante otto formate dagli alleati, per un totale di circa 80.000 uomini, affiancati inoltre da circa 6.000 cavalieri, numeri davvero incredibili per quei tempi. La piana di Canne, seppur vasta, non lo era comunque abbastanza per poter dispiegare tutte le forze sul campo, e per i romani, questo si rivelò un problema di non poco conto, in quanto si trovarono ad operare in spazi non sufficienti per sviluppare totalmente le loro potenzialità. A ogni buon conto, sia Tito Livio che Polibio ci tramandano che Varrone, scelse di schierare i suoi manipoli più ravvicinati e con profondità maggiore, piuttosto che in larghezza, impedendo così di fatto ogni movimento alle sue truppe, probabilmente il generale romano contava di più su un combattimento basato sulla forza fisica di spinta, similmente alle attitudini delle classiche falangi di opliti greci.

Per Annibale, la scelta fu molto più agevolata. Lo schieramento romano, così concentrato sulla fanteria, offriva ai lati due ampi e comodi corridoi dove i suoi abili cavalieri avevano libertà di imperversare, inoltre il leggero pendio a lui favorevole, permettevano agli stessi di effettuare cariche molto più devastanti. Il generale punico, dall’alto della sua esperienza, ben sapeva come avrebbero combattuto i legionari, nettamente superiori per forza e per numero ai suoi soldati, e capì subito che per avere una speranza di vittoria, doveva tenerli impegnati il più a lungo possibile, per dare tempo alla sua cavalleria, di riuscire a prenderli alle spalle. Annibale schiera dunque i suoi fanti in una linea ad arco, la cui parte convessa era rivolta verso il nemico, scherando poi ai due estremi i veterani libici, occorreva però che il centro fosse risoluto e che potesse reggere l’urto dei legionari, e per questo venne formato dai mercenari galli e da soldati iberici. Lo schieramento era perciò cosa fatta, e da ora in avanti ogni movimento si svolgerà esattamente come Annibale aveva previsto.

LA DISFATTA DI CANNE, le fasi della battaglia:

Nel frattempo che le fanterie completavano il loro schieramento, i rispettivi schermagliatori già erano impegnati nel lancio di giavellotti, e quando terminarono i loro proiettili, i soldati erano pronti allo scontro.  La battaglia la cominciò la cavalleria numida che attaccò quella romana sul fianco sinistro, mentre sulla destra furono i galli e gli iberici a caricare. I cavalieri romani, così stretti fra la riva del fiume e la fanteria che avanzava, si trovò subito in difficoltà e si diede presto alla fuga, qui anzichè darsi all’inseguimento, i punici caricarono il retro delle colonne legionarie che già combattevano nelle prime fila contro il centro cartaginese. Qui con il continuo ma inesorabile ripiegamento di soldati galli e iberici, la linea inziale a forma di arco convesso, passò ad una linea concava. Era proprio ciò che Annibale sperava, i legionari si erano spinti troppo in avanti, e persa la protezione ai lati della cavalleria, finirono nella morsa dei veterani libici, che tenuti opportunamente arretrati e alle estremità della linea, completarono l’opera chiudendo a tenaglia i malcapitati. L’ultimo fatale colpo lo inferse la cavalleria pesante punica, che dopo aver sgominato quella romana, caricò con forza il retro delle colonne di Varrone. La fanteria romana era ormai circondata su tutti i lati, e costretta a combattere in spazi sempre più stretti, finì lentamente ma inesorabilmente massacrata. La spaventosa superiorità di Roma venne fatta letteralmente a pezzi e la disfatta di Canne assunse proporzioni bibliche, diventando forse il più grande massacro di uomini che l’Urbe abbia mai subito nel corso della  sua storia millenaria. Sul campo perse la vita il console Lucio Emilio Paolo, il magister equitum, Minucio Rufo, il console in carica l’anno precedente, Gneo Servilio, almeno 29 tribuni militari, cioè quasi tutta la linea di ufficiali delle legioni, 80 senatori, più altre decine e decine di migliaia di uomini di cui la storia non ricorderà più i nomi. Polibio parla di 70.000 caduti romani, ma se accettassimo le cifre più contenute di Tito Livio, che parla di quasi 50.000 uomini, possiamo comunque capire di cosa stiamo parlando, una vera ecatombe. Solo 15.000 uomini riuscirono a salvarsi insieme al più grande responsabile di quel disastro, il console Gaio Terenzio Varrone. Per contro Annibale perse circa 6.000 mercenari celtici, e più o meno 1.500 uomini iberici e libici, e appena 200 cavalieri.

La Disfatta di Canne
La Disfatta di Canne
La Disfatta di Canne
La Disfatta di Canne

LA DISFATTA DI CANNE, conseguenze:

Incredibilmente Roma incassò quel colpo, che per altri si sarebbe rivelato mortale, con una inimmaginabile energia. La supremazia marittima che ancora vantava, gli consentiva di intercettare ogni aiuto che proveniva ad Annibale dall’Africa, alcune città importanti come Capua, dopo la battaglia aprirono le porte ai punici, ma quasi tutto il centro Italia rimase fedele a Roma e con il ritorno di Quinto Fabio Massimo e della sua tattica più avveduta, il terreno perduto, specie nel sud, venne presto riguadagnato. Così mentre Annibale iniziava a trovarsi sempre più in difficoltà per la mancanza di rifornimenti e di uomini, a Roma con enormi sforzi, si riuscì in tempi brevi a ricostruire e ad addestrare un nuovo esercito. Negli anni seguenti Asdrubale, battuto da Scipione, riuscì ad attraversare le Alpi e a presentarsi nella pianura padana, con l’intenzione di unirsi al fratello Annibale. Ma i consoli in carica Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore, riuscirono nella valle del Metauro a sconfiggerlo. Annibale non poteva così più contare sui rinforzi dalla Spagna e disperando di ottenere altri  soccorsi da Cartagine , si vide costretto a ritirarsi ancora più a sud della penisola. Qui Roma capì che era il momento di affondare il colpo, e con una mossa rischiosa e azzardata, scelse di portare la guerra dall’Italia, direttamente in Africa, isolando Annibale ad un ruolo di comprimario. Scipione, guadagnato l’amicizia del potente Re, Massinissa, vinse facilmente, in terra d’Africa, gli improvvisati eserciti punici, così Cartagine fu costretta a richiamare Annibale sul suolo patrio per difendere la sua città. Finalmente il 29 ottobre del 202 a.C. Annibale e Scipione si affrontarono a Zama che, diversamente da Canne, segnò la definitiva sconfitta di Cartagine, e il completo riscatto romano.

Credits to:

http://www.arsbellica.it/pagine/antica/Canne/Canne.html

 

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