Le Forche Caudine

Importante avvenimento della seconda guerra sannitica, la battaglia delle Forche Caudine vide scontrarsi i Romani e i Sanniti guidati da Gaio Ponzio, questi ultimi imposero ai soldati dell’Urbe l’umiliazione di passare sotto i gioghi. La società romana ne fu talmente scossa che nei decenni successivi la paragonò addirittura alla disfatta di Canne per opera di Annibale. I Romani vennero sconfitti anche se però sarebbe più giusto parlare di una resa incondizionata, visto che alle Forche Caudine non ci fu nessuno scontro in quanto i legionari vista la completa impossibilità di vittoria deposero autonomamente le armi

Le Forche Caudine, contesto storico:

Nel 341 a.C., dopo la fine della prima guerra Sannitica, i Sanniti ottennero la pace dai Romani, impegnandosi però a rimanere neutrali nelle interminabili guerre che vedevano Roma opposta alle bellicose popolazioni vicine. Tuttavia nel 327 a.C., i Sanniti ruppero tali accordi appoggiando gli abitanti di Palepoli (Napoli), assediati dai Romani, e dopo una serie di scontri armati vennero ancora una volta battuti definitivamente nel 322 a.C., accettando di conseguenza umilianti condizioni di pace, che prevedevano tra le altre cose la consegna del fomentatore della rivolta Brutulo Papio, poi suicidatosi,  e la consegna di tutti i prigionieri. I Sanniti speravano così di riguadagnarsi lo status di alleato, ma i Romani non fidandosi più di loro rifiutarono decisamente. Nel 321 a.C., la situazione declinò, a Roma vennero eletti consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino, mentre i Sanniti elessero a loro comandante Gaio Ponzio, che al rifiuto di Roma di concedere nuovamente l’alleanza, tenne un accorato discorso al proprio popolo teso ad infiammarne nuovamente gli animi.

Le Forche Caudine
Le Forche Caudine

Le Forche Caudine, la trappola:

Durante queste intricate trattative l’esercito romano rimase stanziato nel Sannio, presso Calatia (odierna Maddaloni, in provincia di Caserta), allo stesso tempo il generale sannita Gaio Ponzio spostò segretamente il proprio esercito presso Caudio (attuale Montesarchio in provincia di Benevento). A questo punto scattò la trappola messa in atto dai Sanniti: alcuni di loro travestiti da pastori ebbero il compito di farsi catturare dai Romani presi a razziare i territori circostanti, alla loro cattura avrebbero dovuto raccontare che i Sanniti stavano assediando la roccaforte di Luceria, in Apulia, fedelissima alleata dei Romani. Preoccupati dai fatti i due consoli avevano ora  due possibilità: o raggiungere Luceria attraverso un’ampia strada che costeggiava l’Adriatico, facendo però un percorso molto più lungo, oppure passando attraverso le gole di Caudio, un tragitto più impervio ma molto più corto.  Dove siano queste strettoie impervie non è ben definito; evidentemente dopo l’epilogo dei fatti, la localizzazione precisa  di Caudio venne rimossa dai romani, tuttavia Tito Livio ce ne descrive il luogo con molta accuratezza:

“due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, più stretta e irta di ostacoli.”  (Tito Livio ab Urbe condita libri, IX, 2).

 

I due consoli romani optarono per la via più breve senza però mandare nessuno in avanscoperta, accorgendosi così molto presto degli sbarramenti sanniti e notando le numerose postazioni nemiche sulle alture circostanti. Sempre Tito Livio ci racconta che l’esercito una volta arrivato in prossimità della seconda gola, la trovarono ostruita da tronchi d’albero e da imponenti macigni, i Romani si trovarono così in un vicolo cieco. L’unica soluzione per le legioni a quel punto era ritornare sui propri passi, ma dopo il loro transito, i Sanniti avevano provveduto a sbarrare anche la prima gola, chiudendo così i Romani in una trappola senza via d’uscita. A quel punto le forti legioni di Roma si trovarono impaurite e indecise sul da farsi, lo sgomento e il dubbio calarono sui consoli romani. Dopo un primo momento di indecisione, la disciplina romana tornò alla ribalta e subito vennero approntate le tende per i consoli, si costruì  il vallo in prossimità del corso d’acqua e venne scavato il terrapieno per difendere l’accampamento dai nemici, che nel frattempo, dalle alture circostanti, li irridevano come se quello che stavano facendo fosse del tutto inutile. Arrivata la notte l’indecisione regnò sovrana, sia fra i Romani che valutavano piani per uscire da quella situazione, senza però trovare nulla di attuabile, sia tra i Sanniti che avevano si preso in trappola i soldati romani, ma non sapevano ora come disporne. Il comandante sannita Gaio Ponzio si recò dall’anziano e saggio padre in cerca di consigli. Erennio Ponzio ritiratosi da tempo dalla vita politica vista la sua avanzata età, conservava però ancora una mente lucidissima, e al messaggero mandato dal figlio consigliò di liberare i soldati romani senza far loro alcun male. La risposta non fu gradita dai Sanniti che inviarono un secondo messo per avere indicazioni più precise, Erennio questa volta consigliò di sterminare l’intero esercito. Non riuscendo a capire il senso di quelle due risposte così diverse tra loro, Erennio Ponzio venne convocato di persona al consiglio. Giunto sul posto l’anziano si limitò a spiegare il senso delle sue risposte: se i soldati fossero stati lasciati andare, si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l’esercito romano fosse stato distrutto, Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i Sanniti avrebbero potuto vincere facilmente la guerra.

Le Forche Caudine, la cittadina di Montesarchio (BN) dove si suppone sia avvenuto l'agguato sannita.
Le Forche Caudine, la cittadina di Montesarchio (BN) dove si suppone sia avvenuto l’agguato sannita.

Nel frattempo, i Romani, resisi conto di non avere nessuna via di uscita, mandarono dei legati per chiedere ai Sanniti o una pace equa, oppure che si decidessero a schierarsi a battaglia per risolvere definitivamente la questione, Gaio Ponzio non accettò e anzi, pose lui le sue condizioni. I Romani sarebbero stati fatti uscire dal proprio accampamento per passare poi sotto il giogo, vestiti solo della loro tunica per poi abbandonare il Sannio e le colonie li conquistate. La proposta venne discussa  nel campo romano quando, in un consiglio improvvisato, Lucio Lentulo, legato di grande valore e figlio del difensore del Campidoglio ai tempi dell’invasione dei Galli di Brenno, parlò apertamente di resa, rendendola l’unica soluzione possibile, sia per uscire salvi da quel luogo, sia per non lasciare comunque sguarnita Roma essendo il grosso dell’esercito romano rinchiuso in quella gola. I consoli si recarono personalmente da Gaio Ponzio per trattare la resa e per fissare la data della consegna delle armi, degli ostaggi e del rilascio dell’inerme esercito romano.

Per raccontare quei momenti ci affidiamo ancora una volta alle parole scritte da Tito Livio:

” Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando […] Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore”.

Le Forche Caudine, epilogo:

L’esercito romano dopo l’umiliazione subita, si recò a Capua dove non ebbe neppure il coraggio di entrare in città, al contrario gli abitanti  uscirono per portare  cibo, vestiti, armi e perfino i simboli del potere per i consoli, ma i Romani sembravano sconvolti e concentrati nel  loro dolore e nella vergogna. A Roma, la notizia del disastro provocò l’ abbandonò  di una nuova leva e si ebbero addirittura spontanee manifestazioni di lutto: vennero chiuse botteghe e sospese le attività del Foro. I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d’oro, e ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città. Questo non accadde ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero nelle proprie abitazioni, tanto che il Senato dovette nominare un dittatore per l’esercizio delle attività politiche. Il popolo però non accettò le magistrature e si dovettero eleggere due “interreges”, Quinto Fabio Massimo e poi Marco Valerio Corvo. Questi proclamò consoli i migliori generali disponibili in quel periodo: Lucio Papirio Cursore e Quinto Publillio Filone.

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