Educazione nella Roma Antica

Fin dall’epoca repubblicana l’educazione dei figli era a carico del “pater familias”, a prova di ciò vi sono testimonianze scritte che affermano di come il padre insegnasse a leggere, scrivere, nuotare e a combattere ai propri figli fin dalla tenera età. Le cose cambiarono in età imperiale, dove è appurato che l’educazione era generalmente affidata alla madre che guidava i figli seguendoli almeno sino a quando questi non arrivassero all’età della fanciullezza.
Nell’età imperiale, non appena i figli acquistavano una certa autonomia, le madri che appartenevano ad un ceto nobile, li affidavano a caro prezzo a un pedagogo famoso. Le meno abbienti invece, mandavano i loro figli in una di quelle scuole private che abbondavano a Roma verso la fine del II secolo a.C.
Nella maggior parte dei casi i precettori erano schiavi, o al più liberti, cosicché non era raro il caso che i fanciulli di buona famiglia non obbedissero ad un personaggio che di fatto era a loro inferiore di rango. Anche i bambini più poveri venivano affidati a un istitutore che, pagato con un misero salario di 8 assi mensili, doveva spesso ricorrere alla frusta per essere ascoltato. A causa di queste precarie condizioni lo status sociale dei maestri nella Roma antica era spesso irriso e mal visto.

Giovinetta intenta alla lettura (bronzo del I sec.)
Giovinetta intenta alla lettura (bronzo del I sec.)

IL LUDUS LITTERARIUS (La scuola primaria).
Non migliori dei maestri erano le condizioni in cui avveniva l’insegnamento, questo in molti casi avveniva in locali angusti dove si accalcavano senza distinzione di sesso ragazze dai sette ai tredici anni e ragazzi dai sette ai quindici anni.
L’abuso delle punizioni corporali che rasentavano il sadismo dei maestri induceva spesso gli alunni a comportamenti a dir poco discutibili. Quintiliano scrive:
” Il dolore e la paura fanno fare ai fanciulli cose che non si possono onestamente riferire e che ben presto li coprono di vergogna. Accade di peggio se si è trascurato di indagare sui costumi dei sorveglianti e dei maestri. Non oso dire le infamie cui uomini abominevoli si lasciano andare in base al loro diritto di punizione corporale , né gli attentati, di cui la paura dei disgraziati fanciulli suscita qualche volta l’occasione in altri…”
Le lezioni della scuola primaria cominciavano solitamente all’alba in piccoli ambienti separati dai traffici e dai rumori della strada da una semplice tenda. Il mobilio di classe consisteva in una cattedra per il maestro, banchi o sgabelli per gli alunni, una lavagna e qualche abaco. Le lezioni terminavano a mezzogiorno.
Il maestro si limitava all’insegnamento della lettura, della scrittura e ai conti matematici. Il metodo seguito era quanto di più meccanico e laborioso potesse esistere. Gli alunni per imparare a leggere dovevano prima imparare a memoria l’ordine e il nome delle lettere, successivamente riconoscere quale era la loro forma e infine mettere assieme sillabe e parole. Altrettanto laborioso era imparare la scrittura: gli alunni dovevano copiare un modello aiutati dal maestro che, tenendo nella sua la mano dell’allievo, gli faceva eseguire i movimenti necessari per riprodurlo. Era un sistema inutilmente macchinoso , che sembrava fatto apposta per prolungare il tempo necessario per l’apprendimento elementare che in effetti durava diversi anni.
Anche per imparare a eseguire calcoli matematici elementari gli alunni trascorrevano molto tempo a fare conti con le dita delle mani: per calcolare le decine, le centinaia e le migliaia imparavano a spostare i sassolini degli abachi.
Nel II sec. d.C., fu l’Imperatore Adriano a favorire l’insegnamento scolastico fin nelle province più lontane dell’Impero, convincendo i maestri ad esercitare il loro insegnamento esentandoli dal pagamento delle tasse. Il metodo d’insegnamento, limitato e meccanico, rimase però immutato nel tempo favorendo così, specialmente nelle classi più povere, un analfabetismo per mancanza di pratica dell’esercizio.

Un magister romano con tre allievi
Un magister romano con tre allievi

L’INSEGNAMENTO SECONDARIO.
Nel II sec. a.C., quando Roma annesse la Grecia ci si rese subito conto di quanto i governanti romani fossero in molti casi meno educati alla cultura rispetto ai loro nuovi sudditi. Si favorì allora in Roma la fondazione di scuole che permettessero una formazione culturale simile a quella dei greci che, poiché permetteva l’ascesa al potere politico tramite l’eloquenza, si volle limitarla alle sole classi più elevate.
I primi professori di grammatica e di retorica provenivano dalle zone orientali e insegnavano utilizzando la lingua greca; quando questi furono sostituiti da italici, si continuò comunque ad usare il greco per l’insegnamento superiore della retorica, ma per quello della grammatica si adoperava sia il latino che il greco. Durante il periodo riformatore del console Caio Mario (157 a.C.–86 a.C.), si cercò di estendere l’uso del latino come fece il retore Plozio Gallo, cliente di Mario.
L’oligarchia romana intervenne a smorzare ogni tentativo di innovazione e lo stesso Plozio Gallo per intervento nel 93 a.C. dei censori dovette rinunciare al suo insegnamento poiché «bisognava ritornare alla regola degli antichi» considerando «che era cosa colpevole adottare una novità contraria alle loro abitudini.»
Le scuole per l’insegnamento dell’eloquenza riapriranno soltanto durante il periodo in cui Cicerone scrive i suoi trattati sulla retorica, nell’età di Cesare, e successivamente nel periodo imperiale dei Flavi.
L’insegnamento della retorica continuò ad essere riservato a pochi anche se era impartito oltre che in greco anche in latino.
Quando si giudicava che l’allievo avesse raggiunto un’adeguata preparazione, questi poteva dare prova in pubblico delle sue qualità di “orator” nelle cause dove esaminava particolari casi di coscienza o nelle arringhe (controversiae).

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